Riceviamo e pubblichiamo il testo integrale della del presidente del mandamento di Spoleto di Confcommercio all’assessore Cappelletti:
Gentile assessore Cappelletti,
presa visione della sua risposta a mezzo stampa del 15 ottobre scorso e visto che mi chiama in causa in piu’ passaggi mi corre l’obbligo di fare alcune precisazioni sull’argomento e di farle apertamente sulla stampa.
Una prima precisazione: la nostra non è una posizione né ostracistica né corporativa. Confcommercio rappresenta tutti i format distributivi (dal venditore ambulante alla GDO) ed è proprio dall’ascolto della base associativa che fa scaturire l’elaborazione delle proprie proposte, osservazioni e critiche. Non siamo legati ad un’ideologia che seguiamo fideisticamente e che ci porta ad essere contro o a favore di qualcuno o qualcosa: osserviamo lo stato dell’economia, ci confrontiamo con i nostri soci (sia quelli piccoli che quelli grandi o grandih ussimi) e da questo desumiamo le nostre politiche.
Sulla base di quanto detto ci siamo mossi anche in occasione delle nostre ultime esternazioni: osservando lo stato dell’economia spoletina ci siamo resi conto che, come ci riferiscono le nostre imprese, un nuovo insediamento commerciale sarebbe non solo inutile ma addirittura dannoso. L’invito che rivolgiamo alla Amministrazione comunale è quello di sperimentare nuove soluzioni nel riuso degli spazi privati e pubblici che non siano sempre ulteriori insediamenti distributivi. Ma quello che vediamo è tutt’altro: “il commercio viene troppo spesso usato come un bancomat buono per tutti. Per i proprietari del terreno, per i costruttori, per gli investitori (in genere sempre gli stessi) e, non ultimo, per il Comune che riesce a incamerare una serie di oneri che con nessun altro investimento porterebbe a casa”
Si parla di questo settore solo in chiave “mattone”, cioè solo in termini di volumetrie, varianti e nuove cubature. Mai una volta che se ne parli in termini di qualità della vita, coesione sociale, sicurezza e presidio del territorio, capitale umano, innovazione, riposizionamento sul mercato, trend dei consumi, stili di vita ecc. Non si contesta la legittimità di questo operato, ci mancherebbe, ma si contesta piuttosto una visione restrittiva di un settore che potrebbe rappresentare molto di piu’ con una strategia di lungo periodo.
Già il fatto che in questa querelle si sia inserito lei, assessore all’urbanistica, la dice lunga su come le Amministrazioni vedono il commercio: “un mercato di sbocco per il mattone, per il proprietario di un terreno e per far cassa al Comune”.
Poiché a lei, tuttavia, è toccato il compito di entrare in questa tematica non posso esimermi dal contestarle alcuni passaggi della sua nota.
Il fatto che l’immobile sia di proprietà privata nulla toglie alle potestà amministrative di governo sia del territorio che del settore commerciale che sono esclusivamente in capo al Comune. E’ ovvio che si tratti di un’area privata ma ciò non significa che il Comune si possa defilare in situazioni come questa (che sono la normalità) e non possa/debba dire la sua. In pratica, averlo detto ci sembra del tutto pleonastico.
Il cadere dal pero rispetto alla nostra richiesta di sospendere procedimenti in corso mi stupisce: nella mia provocazione non mi riferivo certo alla parte urbanistica del procedimento quanto piuttosto a quella amministrativa in senso stretto sulla quale, in autotutela, l’amministrazione ha agio di procedere ad una sospensione laddove si ravvisino motivi di livello costituzionale. E proprio di questo si sta trattando in questi giorni in Regione poiché stiamo negoziando un regolamento che conterrà la declinazione dei cc.dd. motivi imperativi di interesse generale afferenti a valori costituzionalmente garantiti che servono da limite alla libertà di iniziativa economica laddove gli impatti che questa produce superino certi indicatori-soglia che, appunto, devono essere individuati. Nelle more, brevissime, di questo regolamento che difende la salute, il paesaggio, l’ambiente, i beni architettonici, ecc. dall’impatto che gli insediamenti commerciali possano avere, sarebbe auspicabile uno stop amministrativo che consenta all’Amministrazione di recepire i contenuti dell’emanando regolamento. Se poi alla luce dei criteri suddetti il progetto in questione rispetterà i parametri regolamentari, si procederà al rilascio del titolo autorizzatorio, ma in questo caso alla luce di una ponderazione sostanziale e non vacua. Era questo, e non altro, il mio auspicio.
La cosa che tuttavia lascia più turbati è l’affermazione secondo cui «il piano del commercio non è nella disponibilità del Comune ma di enti sovraordinati che hanno già legiferato e stabilito che strutture commerciali di determinate caratteristiche possano essere realizzate senza essere soggette alla mera discrezionalità dell’ente comunale nel consentire o non consentire quell’insediamento». La frase merita risposte puntuali.
In primo luogo spetta al Comune e non ad altri, a mente dell’art. 11 del T.U. del commercio, emanare un piano del commercio comunale. Non saperlo rappresenta un grave deficit. A meno che si sia in presenza di un esercizio di vicinato o di una media struttura di tipo M1, nel qual caso è sufficiente una Scia. Però è evidente che se ci siamo attivati in modo pubblico è perché l’operazione che si prospetta non si limiti a qualche centinaio di metri quadrati. Ed in questo caso la potestà decisoria spetta solo ed esclusivamente al Comune.
In secondo luogo, occorre chiarire un altro aspetto: la Direttiva Servizi (c.d. Bolkenstein) non ha affatto tolto alcunché alle prerogative della programmazione commerciale, anzi l’ha arricchita di contenuti veri. Si sente dire infatti da parte dei male informati che “oggi non si può più eccepire nulla a nessuno”: questo è un falso. Con la Direttiva Servizi si passa da una programmazione meramente quantitativa (che guardava non alla qualità del progetto ma al contingente al momento disponibile) ad una programmazione qualitativa (che cerca di evitare che un determinato insediamento possa danneggiare valori costituzionalmente garantiti come il paesaggio, la salute, l’ambiente, la mobilità ecc.) declinando in indicatori-soglia, come dicevo prima, i cc.dd. motivi imperativi di interesse generale. E’ chiaro che per poter fare questo lavoro l’Amministrazione deve fare un deciso passo in avanti in termini di capacità programmatoria. Il rischio, però è che si faccia un po’ come la volpe che non riuscendo a cogliere l’uva decide che non è matura: cioè, questo non può e non deve tradursi in una deregulation di fatto perché non si è in grado di declinare questi motivi imperativi. Altrimenti potrebbe venire il dubbio che più che un problema di capacità sia un problema di volontà per lasciarsi un maggior margine di manovra nel far insediare più strutture possibile, fare più cassa possibile e fare anche più favori possibili…
In terzo luogo, nella frase c’è una contraddizione rispetto all’inizio del comunicato: se è vero che sopra le scrivanie del Comune non c’è notizia di alcun investimento in quest’area, come mai si è così precisi nell’affermare che “strutture commerciali con determinate caratteristiche” non sono soggette ad alcuna procedura amministrativa? “E quindi con trasparenza e coerenza non sarebbe meglio accettare un contraddittorio con la mia organizzazione che, come detto, non ha possibilità di vietare a questo Comune nulla (e ci mancherebbe pure!) ma vuole solo dare il proprio contributo per lo sviluppo armonico di questo territorio, perché alla fine, al termine del suo mandato lei tornerà al suo lavoro, mentre io e le imprese che rappresento continueremo a vivere e produrre a Spoleto nella misura in cui saremo stati in grado di mantenere in questa città le condizioni per farlo”.
Cordialità
Tommaso Barbanera
Lascia un commento